Text by Francesco Correggia
Text on catalogue, Mind Games, 25/01/2011 - 08/02/2013, Solo exhibition (with Ray Smith) at Galleria Formentini, Milan


Due storie

Alberto Finelli e Ray Smith insieme in una mostra. Un artista giovane e uno più affermato che si  guardano reciprocamente. 
Due artisti a distanza sia da un punto di vista geografico sia da quello anagrafico. Che cosa li ha portati a concepire un lavoro unitario, a quattro mani? Forse l’esigenza di una convergenza  o forse ancora di più la possibilità di aprire un dialogo, una conversazione sull’arte a partire da uno dei suoi supporti più tradizionali: il foglio.
Abbiamo sempre pensato che la pittura nell’ottica modernista fosse un medium che conteneva due modelli di interpretazione quello del color field o dell’otticità, e quello dell’informe o dell’orizzontale. Entrambe le modalità si articolavano verso una diversa dimensione dell’esperienza corporea e quindi verso una forma differente di intenzionalità. E’ soltanto all’interno di questa dimensione che l’orizzontale in quanto medium divenne una rappresentazione del mondo distinta da altre pratiche come il piano pittorico o il campo scritto dell’iscrizione che continuavano a basarsi sulla figurazione visiva, non verbale. In questo senso abbiamo guardato all’opera non come linguaggio bensì come espressione, come orizzonte del mondo che appare, si rende visibile attraverso le immagini, il colore, la tecnica. Con la process art e la conceptual-art la questione dell’opera cominciò a ruotare intorno a una dimensione fenomenologica del campo orizzontale come medium in opposizione a quello della verticalità pittorica. Ancora di più l’arte cominciò a porsi come questione dell’interrogazione del senso del farsi dell’opera e dello stesso suo significato come novità, luogo di un progetto, di un linguaggio. Ma esiste davvero un linguaggio dell’arte e in quale modo esso si mostra?
Dobbiamo pur sempre affermare che l’arte è presentazione di un mondo nuovo. La cosa più strana è che questo mondo nuovo non si oppone a quello vecchio poiché il mondo è sempre qualcosa di essenzialmente nuovo. Ma che cosa vuol  dire nuovo se non ciò che è appena nato? 
Vi è un momento della temporalità in questo novus, quello dell’essere in questo momento stesso in corso d’essere che indica una possibilità dentro lo stesso linguaggio, una specie di mondializzazione come diceva Matisse del rapporto fra l’opera e lo spettatore che pone la condizione di un inaspettato, di una comunicazione segreta. Il linguaggio qui significa cifratura. L’opera cessa di poter essere pensata come oggetto per diventare un mondo vivente che è segno infallibile di una divinità. L’opera è quindi segno del riflesso della divinità. Fin qui Matisse.
In sostanza l’opera d’arte è essenzialmente sempre nuova non nel senso di un disvelamento come sarebbe piaciuto a Heidegger ma di una condizione del linguaggio che nell’arte è interpretazione di quel novus, di quella novità che si dava prima come parola e ora come segno che fa
di- segno in un modo del tutto specifico, così come ogni lingua fa segno, eppure non è una lingua.
L’interesse di un lavoro a due sta dentro questo lavoro di traduzione del novus che pone l’arte come linguaggio per il solo fatto di far segno dentro la materialità e la trasparenza del supporto foglio. Una cifratura che sembrerebbe appartenere solo ai due artisti che ne hanno convenuto. 
Il linguaggio così non è inghiottito dal codice ma rimanda a un fuori che traduce la relazione tra due modalità differenti quella di Alberto Finelli e quella di Ray Smith.
Al di là delle parole che fanno il linguaggio, i due artisti si scambiano delle cifre, dei segni di ciò che si fa sotto i nostri occhi per esprimere la parola totale incantatoria che non ha suono ma solo cifra, codice figurale che è scambiato. Le figure diventano marcature di questo dire, sigilli di un al di là del quadro che ora diventano accessibili a chi guarda, a noi. Uno stampo supremo che non ha luogo e che si avvale di diverse grafie, di  grafi esistenziali, che si spargano su carte sparse. Si tratta di fondi, di locuzioni che si fanno immagini in divenire: dei vari giacimenti sparsi qua e là, ignorati o emersi secondo una qualche loro ricchezza, e per forgiarli (Mallarmè).
Il codice di Finelli riprende quello di Smith e viceversa non solo per integrarsi ma per distinguersi in una reazione a catena dove entrambi decostruiscono e ricostruiscono. Sarebbe difficile qui scrivere dell’uno e dell’altro là dove appunto sembrano esserci rimandi e incastri, là dove le stesse differenze si negano o sono svolte come suoni segni. Purtuttavia possiamo distinguere due caratteri distinti di una medesimo modo e forse di una stessa lingua. In Alberto Finelli sembra emergere il luogo di una pratica seduttiva della pittura che traccia e al contempo narra, racconta. In fondo ad Alberto interessano il libro e la stessa esperienza della messa a fuoco simbolica che ha a che fare con la traduzione. 
In Ray Smith c’è il sentimento inverso ma non per questo dissimile di un’ansia apotropaica, del mito, di una classicità perduta che è resa informe attraverso figure ibride, inquietanti. Forse si tratta della sua storia personale, di una città perduta, di una memoria.  
Infine quel che si mostra è l’esistenza, due storie che, per un breve momento, seppure a distanza si incrociano.



Two stories

Alberto Finelli and Ray Smith together in an exhibition. A young artist and one established that  look at each other. Two artists at a distance both for geography and age. What led them to conceive a single four hands work? Perhaps the need for a convergence, or perhaps even more the possibility of opening a dialogue, a conversation about art, that moves from one of its more traditional media: the paper.
We always thought that the painting was,in the modernist perspective, a medium that contained two models of interpretation: that one of the color field or of the optical, and that one of formless or horizontal. Both modes lead to a different dimension of the body and then to a different form of intentionality. And it's only within this dimension that the horizontal as medium became a representation of the world distinct from other practices such as the picture plane or field written inscription that continued to be based on visual representation, non-verbal. In this sense, we looked at the work of art not as a language but as an expression, as the horizon of the world that appears, that is made visible through images, color, technique. With process art and conceptual art, the question of the work of art began to turn the question around a phenomenological dimension of the horizontal field as a medium in contrast to the verticality of painting. Even more art began to deal with the question of the sense of creation of the work and with its meaning as news, site of a project, language. But is there really a language of art and how it shows itself?
We have to say that art is the presentation of a new world. The strangest thing is that this new world is not opposed to the old one because the world is always something essentially new. But what does “new” mean new if not what is just born? There is a moment of temporality in this novus, that of being in this moment in the course of being which indicates a possibility in the same language, a kind of globalization, as Matisse said, of the relationship between the work and the viewer that puts the condition of an unexpected, of a secret communication. The language here means encryption. The work is no longer thought  as an object and becomes a living world that is infallible sign of a divinity. The work is therefore the sign of the reflection of divinity. So far Matisse.
The work of art is essentially always new not in the sense of an unveiling -  as Heidegger would have appreciated - but as a condition of the language that in art is an interpretation of that novus, of that novelty that was given as the first word and now as a sign that makes sign-in a very specific way, as each language is sign, yet it is not a language.
The benefits of working two is in this work of translating the novus that places art as a language for the sole reason to sign in materiality and transparency of the support sheet. Encryption that seems to belong only to the two artists who have agreed. The language that is not swallowed by the code, but refers to an out of that translates the relationship between two different ways, that one of  Alberto Finelli and that one of Ray Smith.
Beyond the words that make the language, the two artists will exchange figures, signs of what has been done under our eyes in order to express the total incantatory word that has no sound but only digit code figural that is exchanged. The figures become markings of this saying this, a sealed beyond the framework that now become accessible to the viewer, to us. A mold supreme that does not take place and which uses different spellings, existential graphs, which may spread out cards scattered. These funds, of phrases that become images in the making: the various fields scattered here and there, ignored or raised according to some of their wealth, and to forge (Mallarmé).
The code Finelli follows that of Smith and vice versa not only to integrate but to stand out in a chain reaction where both deconstruct and reconstruct. It would be difficult to write here of both where there seem to be just references and joints, where the same differences are denied or are carried out as sounds, signs. Nevertheless we can distinguish two distinct characters in a same way and perhaps the same language. In Alberto Finelli’s works it seems to emerge the place of a seductive practice of painting that track and s at the same time tells.  At the bottom Alberto seems to be interesting in the book and in the same symbolic experience that has to do with the translation. In Ray Smith’s works there is the feeling in reverse but not dissimilar of an apotropaic anxiety, the myth of a lost classic that is made formless by hybrid figures, disturbing. Maybe it's his personal story, a lost city, a memory.
Finally, what is shown is the existence of two stories that, for a brief moment, although remote, cross.

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